Scienza

Longevità: le verità scomode sulla mortalità umana

2025-01-01

Autore: Alessandra

Ogni progresso nella comprensione della mortalità umana solleva nuove e intriganti domande. Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, la comunità scientifica si è divisa in due fazioni: da una parte, chi crede che l’immortalità sia a portata di mano e dall’altra chi avverte la presenza di confini biologici alla durata della vita. Chi ha ragione? E come potrebbe evolversi la ricerca su questo tema delicato?

Le verità sulla mortalità umana

L’innalzamento dell’aspettativa di vita, testimone di un progresso straordinario, ha avuto inizio nel XIX secolo grazie agli sviluppi della salute pubblica. Recentemente, il miglioramento si è concentrato nella riduzione dei tassi di mortalità tra adulti e anziani.

Tuttavia, negli ultimi 30 anni, sono emerse evidenze che suggeriscono l’esistenza di limiti. Ricercatori come S. Jay Olshansky e Bruce A. Carnes, nel loro studio per *The Journals of Gerontology*, sostengono che ci sono barriere biologiche impossibili da ignorare, nonostante le proiezioni matematiche le contraddicano.

Le leggi della mortalità, coniato da Benjamin Gompertz nel 1825, rivelano che la mortalità segue modelli regolari e prevedibili, suggerendo l’esistenza di confini definiti.

La teoria dei limiti matematici

Un gruppo di pensatori sostiene che i tassi di mortalità potrebbero ridursi all’infinito, raggiungendo un punto teorico di immortalità. Questa ipotesi si basa sull'idea che la tecnologia medica possa sempre garantire una vita più lunga. Uno dei promoter di questa idea è Aubrey De Grey, noto ricercatore nel settore della longevità.

Tuttavia, questa teoria fa eco al paradosso di Zenone, che descrive una freccia che non colpirà mai il suo bersaglio. In realtà, la freccia colpisce sempre, così come i modelli matematici sulla mortalità potrebbero non tener conto delle limitazioni biologiche degli essere umani.

Le barriere biologiche

Esistono limiti intrinseci alla longevità, similmente ai limiti physicals nella corsa umana. La nostra biologia si è evoluta seguendo altre priorità, rendendoci incapaci di eguagliare le aspettative di vita di specie diverse come gli squali della Groenlandia, che vivono fino a 392 anni. La longevità, quindi, deriva da meccanismi genetici che ottimizzano crescita e riproduzione, e non da un desiderio di estensione della vita.

Entropia nella mortalità

Olshansky e i suoi colleghi hanno introdotto il concetto di "entropia nella tavola di mortalità": man mano che l’aspettativa di vita aumenta, gli incrementi risultano sempre più difficili. Una volta superati gli 80 anni, i decessi si concentrano tra i 60 e i 95 anni, e l’invecchiamento inizia a dominare come fattore di rischio per malattie fatali.

Longevità e un nuovo paradigma

La ricerca non dovrebbe fermarsi alla ricerca disperata di un "elisir di lunga vita". Una direzione utile sarebbe migliorare i sistemi di riparazione e sostituzione delle "parti" del nostro corpo che non funzionano più. Le sfide future includono la genetica, i trapianti e altre innovazioni. Invece di allungare la vita a tutti i costi, occorre puntare a prolungare la vita in salute. Come afferma la Gerontological Society of America, la ricerca dovrebbe concentrarsi sulla "compressione della morbilità".

Il futuro della ricerca

Nessuno può prevedere con certezza come i progressi nella biologia dell’invecchiamento influenzeranno l’aspettativa di vita. Ciò che appare chiaro è la necessità di migliorare la qualità della vita durante gli anni che abbiamo a disposizione, piuttosto che inseguire un ideale di immortalità. La vera sfida è garantire che gli anni siano pieni di salute e benessere, piuttosto che un prolungamento della vita in condizioni precarie. E se ci fosse un modo non per combattere la morte, ma per vivere al meglio fino alla fine?