
Giornalisti di Gaza: "La paura della scritta PRESS, noi raccontiamo con il sangue"
2025-08-31
Autore: Marco
Vita e Paura nel Giornalismo di Gaza
"Ho paura di indossare il giubbotto con la scritta PRESS. Temo che possa essere utilizzato per identificarci e colpirci più facilmente". Questa è la testimonianza di Hanin Hamdouna, una giornalista freelance palestinese di 33 anni, che vive a Gaza. Ogni mattina la sua giornata inizia alle 6:00 con la preparazione del pane, utilizzando legna ricavata dai mobili distrutti del suo appartamento.
Dopo una camminata di trenta minuti verso il Centro di Solidarietà, Hanin annota le sue interviste con il vecchio cellulare e produce i suoi articoli attingendo dalla dura realtà che la circonda. Ogni giorno, come molti di noi in cerca di cibo per la famiglia, porta a casa lenticchie da cucinare.
Giornalismo come Missione
Essere giornalisti a Gaza è molto più di un lavoro; è una missione per raccontare verità che spesso vengono ignorate. Solo nell'ultimo mese, il raid israeliano sull'ospedale Nasser ha ucciso 5 giornalisti, aumentando la già lunga lista di oltre 240 reportere palestinesi che hanno perso la vita nel conflitto attuale. "Ho sopravvissuto a un attacco in cui ho perso dei colleghi. La tenda in cui lavoravo è stata colpita, trepidando per i sopravvissuti” racconta Hanin.
A Gaza, le violenze contro gli operatori dei media sono cresciute drammaticamente dall'inizio delle operazioni militari. Baha'a Tobasi, giornalista per Kurdistan TV, sottolinea: "Israele vuole controllare la narrazione. Noi documentiamo violazioni e crimini, qualcosa che non vogliono che venga pubblicato". Le immagini di bambini malnutriti hanno catturato l'attenzione mondiale, spingendo in primo piano le atrocità che avvengono quotidianamente.
Difendere la Verità
In risposta a chi accusa i reporter palestinesi di parzialità, Tobasi afferma: "Noi raccontiamo il grido delle madri sotto le macerie, non gli slogan politici. Documentiamo bombardamenti su ospedali, scuole e centri di accoglienza, al contrario dei giornalisti israeliani che operano in stretta collaborazione con l'esercito".
Ogni giornata inizia per Baha'a con il rumore di una esplosione o un grido disperato. Ognuno prende la propria videocamera e si prepara a documentare dove è avvenuto l’attacco e chi è stato colpito. Raccontare le tragedie diventa il loro pellegrinaggio tra ospedali e centri di accoglienza, ascoltando storie strazianti che parlano di sofferenza e perdita.
Una Vita Appesa a un Filo
"A volte non riesco nemmeno a tornare a casa", ammette Tobasi, consapevole del rischio che corre. Dalla sua tenda, il pensiero corre alla propria casa, che potrebbe non esistere più: "È stata bombardata? Demolita?".
La vita di Hanin è simile. Dopo una lunga giornata di lavoro, cerca un po’ di riposo, ma spesso le esplosioni la riportano alla realtà di un mondo in guerra. I conflitti si susseguono come un ciclo senza fine: un missile, un articolo su un'altra vita spezzata. Tobasi spiega, in una potente metafora: "La nostra è una corsa tra la parola e il missile, tra la verità e la morte". La giornata intera è permeata dalla paura. Ogni passo verso l'ufficio è un'altra occasione per incontrare la morte.